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Sorprendendo praticamente nessuno: Valve è una delle poche aziende a non aver fatto lobbying contro Stop Killing Games

Tempo di lettura: 4 minuti

Mentre i giganti dell’industria fanno fronte comune per difendere il diritto di “uccidere” i giochi che abbiamo comprato, un nome pesante manca all’appello. Ma non lasciamoci ingannare: la coerenza, a volte, è solo una felice coincidenza di business.

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Nel mondo spesso turbolento del gaming, poche battaglie sono così emblematiche come quella che si sta combattendo sul fronte della conservazione digitale. Come abbiamo già discusso, l’iniziativa “Stop Killing Games” ha acceso un faro su una delle pratiche più controverse e, a mio avviso, indifendibili dell’industria moderna: la capacità dei publisher di rendere un gioco acquistato completamente inutilizzabile semplicemente staccando la spina ai server. Una pratica che ha trovato in The Crew di Ubisoft il suo martire più recente e rumoroso.

La risposta dell’establishment non si è fatta attendere. Attraverso il loro braccio armato per le pubbliche relazioni, il gruppo di lobbying Video Games Europe, colossi come Ubisoft, Nintendo, Microsoft, EA e Take-Two hanno messo in chiaro la loro posizione: chiudere i giochi è una necessità economica e obbligarli a fare diversamente avrebbe un “effetto raggelante” sull’innovazione. Una linea difensiva che, francamente, abbiamo sentito troppe volte. In mezzo a questo fronte compatto, però, l’assenza di un nome ha fatto più rumore di mille comunicati stampa: Valve.

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Un’assenza che non sorprende: il modello Steam

Stando alle informazioni emerse, Valve non figura tra i membri di Video Games Europe e non ha preso parte a questa specifica azione di lobbying. La cosa, a ben vedere, non sorprende affatto. Il modello di business di Valve e della sua piattaforma, Steam, è per sua natura quasi antitetico alla filosofia del “gioco usa e getta”.

Il successo di Steam si fonda sulla promessa, seppur implicita, di una libreria digitale persistente. L’idea è che un gioco acquistato oggi rimarrà accessibile domani, tra un anno, tra dieci. La forza di Steam non è solo nei nuovi rilasci, ma nel suo immenso catalogo arretrato. Uccidere attivamente i giochi andrebbe contro la logica stessa della piattaforma.

Inoltre, Valve ha una lunga storia nel supportare attivamente le community nel mantenere vivi i propri titoli. Giochi come Counter-Strike o Team Fortress 2 prosperano da decenni anche grazie alla possibilità per i giocatori di creare e gestire i propri server dedicati. È una filosofia che si allinea perfettamente con una delle richieste chiave di “Stop Killing Games”: fornire alla community gli strumenti per l’auto-sostentamento di un gioco una volta che il supporto ufficiale è terminato. Per Valve, questa non è una minaccia, è semplicemente il modo in cui hanno sempre operato con i loro titoli multiplayer più importanti.

Non facciamo di Valve dei santi: un promemoria necessario

Tuttavia, è qui che dobbiamo fermarci un attimo e indossare il nostro cappello da giornalista critico. Celebrare Valve come paladina dei diritti dei consumatori in questa vicenda sarebbe ingenuo e storicamente inaccurato. La sua posizione, per quanto condivisibile in questo specifico contesto, non deriva da un superiore senso etico, ma da un modello di business che, semplicemente, non trae vantaggio dall’uccidere i giochi.

Non dimentichiamoci le origini di Steam. Quando fu lanciato, fu visto da molti come l’apice del DRM (Digital Rights Management) anti-consumatore: una piattaforma che, per la prima volta su larga scala, richiedeva una connessione internet per autenticare e giocare a titoli single-player. L’ironia, oggi, è quasi comica. Per anni, Valve è stata accusata di voler togliere ai giocatori il controllo sui propri giochi, legandoli a un account e a un client online.

Le criticità non si fermano qui. Parliamo della curatela, o della sua assenza, sullo store di Steam. La piattaforma è invasa da “shovelware”, giochi di bassissima qualità e “asset flip” che sfruttano le falle del sistema per un guadagno rapido. La posizione di Valve è sempre stata quella di un approccio “laissez-faire”, che però spesso lascia i consumatori a navigare in un mare di spazzatura digitale.

E poi c’è la questione più spinosa, quella che si collega direttamente al concetto di proprietà e fine vita. Avete mai provato a lasciare in eredità il vostro account Steam? Non si può. Secondo i termini di servizio di Valve, l’account e tutti i giochi in esso contenuti sono una licenza personale e non trasferibile. Questo significa che, alla morte del proprietario, l’intera libreria, magari costruita con migliaia di euro e anni di passione, “muore” con lui. In un certo senso, Valve non “uccide” i singoli giochi, ma si riserva il diritto di cancellare intere librerie. Una pratica che, se analizzata a fondo, non è meno anti-consumatore di quella di Ubisoft.

Coerenza o convenienza?

È un bene che Valve non si sia unita al coro di publisher che difendono il diritto di rendere i nostri acquisti inutili. È un fatto positivo e da sottolineare. Ma è fondamentale capire il perché. La loro posizione in questa battaglia non è il frutto di un’illuminazione morale, ma la logica conseguenza di un ecosistema commerciale che trae profitto dalla longevità e dall’accessibilità del suo catalogo.

La lotta di “Stop Killing Games” è sacrosanta e va sostenuta. Ma mentre la portiamo avanti, ricordiamoci di mantenere uno sguardo critico su tutta l’industria, senza creare eroi dove, spesso, ci sono solo interessi commerciali diversi. L’assenza di Valve dal fronte del “no” è una buona notizia, ma è una vittoria di circostanza, non una dichiarazione d’amore. La battaglia per i nostri diritti digitali è ancora lunga e va combattuta su tutti i fronti.

 

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