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Ciao sono qui di nuovo a ricordarvi che i The Game Awards non sono una cosa seria

Tempo di lettura: 4 minuti
Se avessi ricevuto un euro per ogni volta che ho alzato gli occhi al cielo durante una “World Premiere” di Geoff Keighley, probabilmente non avrei abbastanza budget per fondare il mio studio indie ma avrei grano a sufficienza per bere abbastanza da dimenticare le sue fesserie. E invece eccoci qui, ancora una volta. È dicembre, sembra primavera a causa del cambiamento climatico, non vedrò mai più la neve, e l’industria videoludica si è appena auto-celebrata nella fiera delle vanità più costosa del pianeta. Ogni anno mi riprometto di non farci caso, di prendere i The Game Awards per quello che sono: uno show televisivo divertente. Ma poi vedo le contraddizioni sistemiche, i premi lanciati di fretta e le etichette appiccicate a caso pur di costruire una narrazione vincente, e il mio spirito critico si riaccende. L’edizione 2025 non ha fatto eccezione, anzi: con il caso Clair Obscur ha forse raggiunto l’apice dell’ipocrisia.

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Come ogni volta, sento quel pizzico di orticaria salirmi lungo la schiena mentre scorro il feed invaso da discussioni infinite su chi è stato “derubato” e chi invece ha “comprato” la vittoria. Ma parliamoci chiaro: se nel 2025 siete ancora convinti che lo show di Geoff Keighley sia l’equivalente videoludico degli Oscar, ho una brutta notizia per voi. I TGA non sono una celebrazione dell’arte interattiva; sono un colossale spot pubblicitario interrotto occasionalmente da qualche statuetta lanciata in fretta e furia verso sviluppatori che hanno a malapena il tempo di respirare.

L’edizione di quest’anno, con la controversa vittoria di Clair Obscur: Expedition 33 nella categoria indie (e non solo), è stata la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già pieno di contraddizioni, budget gonfiati e una gestione dei “talenti” che lascia spesso a desiderare.

Il Circo di Geoff: Un Listino Prezzi, Non una Giuria

Partiamo dalle basi. Il problema non è solo la vanità di Geoff — ormai soprannominato ironicamente il “Dorito Pope” da mezza internet — ma la struttura economica dell’evento. Non è un segreto, ma fa sempre bene ricordarlo: quel palco è in vendita. E non costa poco. Come riportato da diverse fonti internazionali, tra cui Game Developer, uno slot per un trailer di tre minuti può costare ai publisher cifre che superano abbondantemente il milione di dollari. Avete capito bene. Mentre noi discutiamo se la narrativa di un gioco sia profonda o meno, le aziende stanno firmando assegni a sei zeri solo per farvi vedere un logo rotante.

Questo trasforma l’intera serata in un esercizio di advertainment puro. I premi? Sono un contorno. Ricordo ancora le parole di Josh Sawyer, il geniale director di Pentiment, che già in passato aveva definito l’evento un «imbarazzante atto d’accusa» verso un’industria disperata per la validazione delle star di Hollywood, ma con pochissimo rispetto per gli sviluppatori che dovrebbe onorare. E quest’anno non è andata diversamente: celebrità che non hanno mai toccato un pad in vita loro hanno avuto più minuti on-stage dei game designer che hanno sacrificato anni della loro vita in crunch.

L’Umiliazione dei Ticket: Pagare per Essere Premiati

C’è un dettaglio ancora più fastidioso che è emerso con forza quest’anno e che mi fa riflettere sulla direzione che abbiamo preso. Immaginate di essere nominati per un premio prestigioso. Dovreste essere gli ospiti d’onore, giusto? Sbagliato. Ai team nominati vengono spesso garantiti solo un paio di biglietti omaggio. Due. Per team composti da decine, se non centinaia di persone.

Se vuoi portare il tuo Lead Designer o il Writer che ha scritto i dialoghi che ti hanno fatto vincere? Devi pagare. E non poco. Kotaku aveva già sollevato la questione in passato, evidenziando come i costi possano oscillare vertiginosamente, costringendo studi interi a sborsare decine di migliaia di dollari solo per applaudire i propri colleghi. È emerso che persino membri di team vincenti come quello di Clair Obscur hanno dovuto fare i conti con questa realtà. E pensate ai freelancer: scrittori o compositori a contratto, spesso fondamentali per la riuscita di un’opera, che si ritrovano tagliati fuori perché non c’è budget per il loro biglietto. È un sistema che, involontariamente o meno, finisce per premiare il logo aziendale dimenticando le persone.

Clair Obscur Expedition 33: La “Mossa Kansas City”

E veniamo all’elefante nella stanza: Clair Obscur: Expedition 33. Mettiamo subito le carte in tavola: il gioco mi è piaciuto. Ha uno stile visivo che mescola la Belle Époque con un surrealismo dark davvero affascinante e un sistema di combattimento a turni che finalmente prova a svecchiare i vecchi stilemi dei JRPG, genere a cui sono particolarmente legato dai tempi della PS1.

Tuttavia, la polemica sulla sua natura “Indie” è legittima. A tal proposito, ho trovato particolarmente interessante l’analisi proposta da Massimiliano Di Marco sulla sua newsletter. Di Marco definisce la vittoria di Clair Obscur come una sorta di “Mossa Kansas City” dei Game Awards. È una lettura stimolante: mentre tutti guardano a destra — al presunto budget ridotto (sotto i 10 milioni, dicono) e alla narrazione romantica del piccolo studio francese — a sinistra accade la realtà industriale.

L’osservazione non è priva di fondamento: Sandfall Interactive è guidata da veterani ex-Ubisoft e il gioco è pubblicato da Kepler Interactive, un colosso con fondi milionari creato appositamente per dare risorse quasi-AAA a studi di medie dimensioni. Non è necessariamente un male, intendiamoci, ma la riflessione di Di Marco suggerisce che l’industria premi questi titoli non perché sfidano il sistema, ma perché dimostrano che il sistema funziona ancora: basta avere un publisher solido e usare le risorse (incluso l’outsourcing e attori famosi) in modo intelligente. Definirlo “indie” puro forse stira un po’ troppo la definizione, rischiando di oscurare chi sviluppa davvero con risorse minime.

Quando l’Hype Uccide la Critica

Alla fine, cosa ci rimane? Un evento che genera numeri di streaming mostruosi ma che lascia un vuoto pneumatico in termini di critica culturale approfondita. I TGA premiano chi fa più rumore, chi ha il trailer più costoso e chi riesce a navigare meglio nelle zone grigie delle definizioni di mercato.

Personalmente, continuerò a guardare lo show? Probabilmente sì, perché è il mio lavoro e perché, in fondo, c’è sempre quella piccola speranza di vedere un annuncio che mi faccia saltare dalla sedia come ai vecchi tempi. Ma non chiedetemi di prenderlo sul serio come istituzione critica. La vera valutazione del valore artistico si fa altrove: si fa giocando, analizzando con calma (lontano dal frastuono dei trailer e dai grifter) e ricordandosi che dietro ogni pixel c’è una persona, non solo un asset finanziario da celebrare.

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